Vigilia delle Calende di giugno

Il senatore Publio Aurelio Stazio sedeva un po' rigido, accanto a Tito Servilio, nella tribuna coperta dietro al palco imperiale.

L'anfiteatro di Statilio Tauro, al Campo Marzio, era già pieno da scoppiare, ma altra gente continuava a riversarsi dai vomitoria, i larghi corridoi di accesso per la plebe. I giochi di quel giorno sarebbero stati memorabili: Claudio, grande  appassionato di ludi, non aveva badato a spese per offrire al popolo romano quanto di meglio si fosse visto fino a quel momento in fatto di combattimenti di gladiatori.

L'arena era addobbata da larghi teloni che difendevano il pubblico dal sole cocente e, al suo centro, un monte artificiale ricostruiva fedelmente l'angolo di foresta tropicale da cui i campioni avrebbero dovuto stanare le belve. Tutto attorno, un largo anello di sabbia aspettava il passo trionfante dei vincitori e il sangue dei perdenti.

Tito Servilio, eccitatissimo, additava all'amico Aurelio i vari trucchi di scena, pregustando l'attesissimo spettacolo. Il senatore, dal canto suo, contemplava l'arena con un misto di curiosità e di disgusto: non amava i massacri, per quanto coreografici, e solo l'impossibilità di sfuggire ai suoi doveri sociali lo aveva indotto a occupare il posto, solitamente vuoto, che gli era riservato nella tribuna.

Lo sguardo di Aurelio, vagando tra la folla nel tentativo di sottrarsi al fascino macabro del palcoscenico di morte apprestato nell'anfiteatro, finì col fermarsi sul podio imperiale, là dove il maturo Claudio, avvolto in una ricchissima veste di porpora, era intento a scommettere somme ingenti con i cortigiani più adulatori. Al suo fianco, sotto un baldacchino di broccato, le spalle fiere e regalmente perfette, sedeva la bellissima e chiacchierata imperatrice, Valeria Messalina. Aurelio riusciva a intravederne, in mezzo alle nuche ben rasate dei funzionari, solo la cascata dei capelli d'ebano e un piccolo scorcio del purissimo profilo da bambola orientale.

- Eccoli, eccoli! - lo tirò per la manica Servilio, indicando il cancello da cui i gladiatori stavano entrando, tra le ovazioni della folla.

Un primo gruppo di combattenti, vestiti di pelle di leopardo, passava in quel momento davanti al palco d'onore, seguito a ruota dai traci armati con la parma, il piccolo scudo rotondo destinato a frapporsi - unica difesa - tra loro e la morte. In un bagliore di corazze, fecero la loro comparsa i mirmilloni dai muscoli guizzanti e ben unti d'olio.

Davanti a quell'abbondanza sfacciata di robuste braccia virili, le matrone emisero sospiri soffocati, languidi di promesse per chi, scampato alle Parche, avesse riportato la palma della vittoria.

- Ecco Chelidone, l'asso dell'arena! - esclamò Servilio. - Là, in mezzo ai reziari: guarda come li domina tutti con la sua statura!

Publio Aurelio dette un'occhiata distratta alla massa di carne che torreggiava sotto la tribuna: Chelidone, cioè “rondinella”... che nome ridicolo addosso a quella macchina per uccidere... Un grido della folla lo riscosse. Erano entrati tre lottatori biondi e imponenti, coi capelli disciolti sulle spalle poderose. Il senatore li guardò meglio: i corpi atletici, sommariamente ricoperti da una tunichetta corta, avevano qualcosa di strano, un gonfiore inconsueto nei fasci muscolari del torace, come un vago accenno sgraziato di seno femminile. No, non si stava sbagliando... i vigorosi gladiatori britanni erano indubbiamente delle donne!

La più alta delle atlete alzò in quel momento il capo davanti al divino Cesare, e dalla chioma stopposa emerse un viso rubizzo in cui spiccavano due occhietti rotondi e crudeli.

“Begli esemplari di armonia muliebre!”, pensò Aurelio, disgustato.

Finalmente, la folla si azzittì. Lo schieramento era ormai completo e i gladiatori già alzavano le loro armi verso la tribuna imperiale.

Dalle gole riarse uscì un sol grido: - Ave, Caesar, morituri te salutant!

 

- Aspetta almeno che combatta Chelidone! - lo supplicava Servilio.

- Ascolta, Tito, io mi annoio. Sono ore che mi tocca assistere a un unico spettacolo, ripetuto all'infinito: la morte. E poi questo odore di sangue mi nausea! - esclamò Aurelio, facendo l'atto di alzarsi.

L'amico non seppe come replicare. In effetti, il tanfo aveva raggiunto già da un pezzo anche le gradinate più alte, e né i coni d'incenso, né i bastoncini d'ambra che le signore si passavano sotto il naso, riuscivano più a depurare l'aria.

- Ci sono ancora le britanne, e poi arriva il campione. Sarebbe un insulto a Cesare, se te ne andassi adesso; tu sai quanto ha speso per questi giochi! - tentò di convincerlo Servilio.

Rassegnato, Aurelio riprese di malavoglia il suo posto e si decise a guardare.

Morituri te salutant! Ma chi glielo faceva fare, a quei pazzi? Molti non erano nemmeno schiavi, ma professionisti che rinnovavano più volte il contratto con l'arena, per avere il privilegio di rischiare quotidianamente la pelle in cambio di una buona borsa di denaro. Un mestiere come un altro, d'accordo, ma il senatore non poteva impedirsi di provare una forte simpatia per le belve... E non si era neanche a metà, valutò esasperato, accogliendo con sollievo il breve intervallo della gustatio. Mentre gli schiavi passavano coi rinfreschi, Aurelio cercò di consolarsi alla vista delle matrone in abiti succinti, le quali, senza dubbio, offrivano uno spettacolo più consono ai suoi gusti.

- Aurelio, caro! - lo salutò una famosa cortigiana. - Perché non vieni più a trovarmi?

- Mi farò vivo, Cinzia - mentì il patrizio, che non giudicava le prestazioni dell'etera all'altezza dei suoi prezzi esorbitanti.

- Senatore Stazio, me lo avevano detto che non ti intendi di giochi - lo apostrofò un collega della Curia. - Però, mi stupisco davvero che un uomo della tua qualità sia tanto privo di spirito sportivo. Sempre col pollice sollevato... fosse per te, bisognerebbe graziarli tutti!

“Questo è troppo”, pensò Aurelio. Non bastava starsene lì buono, ad annusare il lezzo del sangue; avrebbe anche dovuto gongolare dall'entusiasmo!

- Ecco che ricomincia: i corni stanno suonando - lo richiamò Servilio. - Adesso viene il bello!

Le chiacchiere vennero rapidamente interrotte da saluti affrettati. Per un attimo, tra lo svolazzare delle toghe, Aurelio captò lo sguardo altero e misterioso della bella Messalina. Il patrizio si inchinò, con un breve sorriso di intesa... “Stai tranquilla, divina Augusta, non sarò io a tradire i tuoi segreti!”, pensò con sarcasmo.

- Ah, facciamo conquiste in alto loco. Quando lo saprà Pomponia... - commentò Tito Servilio.

Aurelio sobbalzò: la moglie del buon cavaliere era la più informata malalingua dell'Urbe, e per nessuna ragione doveva sospettare che qualcosa era intercorso, anche se di sfuggita, tra lui e la spregiudicata Venere imperiale, oggetto preferito dei pettegolezzi delle matrone. Cercò quindi di sviare in fretta l'attenzione dell'amico, riportandola verso i ludi: - Guarda, hanno contrapposto le amazzoni della Britannia agli etiopi! - disse, indicando i corpi neri degli africani che contrastavano violentemente con la bianchezza delle nordiche.

- Già. Molto scenografico! - apprezzò il cavaliere, mentre il combattimento aveva inizio.

Una delle virago cedette improvvisamente ed ebbe il collo spezzato da un secco fendente. Anche la seconda giacque presto nella polvere, raggiunta da un colpo di spada. Rimaneva solo la terza, con due avversari ancora in piedi, perché già un africano era caduto sotto il suo ferro. Senza esitare, l'amazzone si gettò sul gladiatore meno forte, ingaggiando una lotta accanita, mentre l'altro accorreva in aiuto del compagno.

Fu un attimo: affondata la spada nel torace dell'avversario, la gigantessa la estrasse con rapidità fulminea e si volse come una furia verso l'etiope superstite. Il povero africano, già lanciato nella corsa, vedendosi venire addosso quella Erinni, non resistette: gettato il gladio nella polvere, prese a scappare per tutta l'arena, inseguito dalla donna urlante.

- Arduina, Arduina! - plaudiva il pubblico, e col pollice verso chiedeva la giusta pena per il vile. - Iugula! – urlava la folla. - Sgozzalo!

La vincitrice non se lo fece dire due volte.

Gli schiavi libitinarii, in abito da Caronte, si stavano affannando a portar via i cadaveri e a rimestare la sabbia per cancellare le tracce dei caduti, quando un grido unanime segnò l'ingresso di Chelidone.

Il reziario entrò in trionfo, brandendo il tridente, mentre il disgraziato destinato ad affrontarlo attendeva a testa bassa che si compisse un destino già segnato: il grande campione era imbattuto; nessuno dei suoi avversari aveva mai lasciato vivo il recinto dell'arena.

La lotta cominciò, impari: poco aveva da opporre all'asso dei giochi lo sconosciuto col suo misero gladio. In men che non si dica, il poveretto fu avviluppato nella rete e il tremendo reziario si portò verso di lui.

Lo sconfitto, il viso nella polvere, vide avanzare i calzari infangati di sangue e sabbia, mentre le punte minacciose del tridente gli oscuravano per un attimo l'ultimo sole. Allora chiuse gli occhi, rassegnato. Un boato assordante segnò la sua fine.

Attese, per dei momenti interminabili... Non successe nulla... e lui, quasi suo malgrado, fu costretto a concludere di essere ancora vivo... No, evidentemente le cose non stavano andando come si era aspettato.

Riaprì gli occhi e sollevò la testa, cautamente. A pochi pollici dal suo naso, i calzari del gladiatore giacevano immobili nella polvere, ritti sul tallone. Dietro i calzari, le gambe e il resto di Chelidone, riverso sulla sabbia col tridente in mano. Morto.

Morituri te salutant
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